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Team ESPLORA, pedalare in Mongolia per re-imparare, apprezzare e stupirsi

Un viaggio in bici fuori dal tempo dove ospitalità e semplicità hanno arricchito le giornate di Davide, Marco e Giuseppe in un territorio arido, ventoso e selvaggio

Scritto il
da Luca Tessore

Il team Esplora con Davide e Marco insieme al Cyclovagabond Giuseppe Papa ci aprono le porte della Mongolia con nuovi paesaggi di un paese, come lo definiscono loro, “fuori dal tempo“, dove ospitalità e libertà sono di casa.  Per chi non conoscesse questo gruppo di viaggiatori consiglio di leggere questo articolo Team ESPLORA, 1700 km attraverso il Nepal.

Intervista al Team Esplora

 

Un po’ di numeri del viaggio

In Mongolia abbiamo percorso 1170 chilometri per un totale di 11.000 metri di dislivello, incontrato una quantità innumerevole di piccoli paesini e usato mezzi a volte particolari, come quando abbiamo caricato le bici su una camion che trasportava balle di fieno, li abbiamo aiutati a scaricarle in cambio di un passaggio un giorno in cui avevano previsto moltissima neve!
Passavamo in sella circa 6/8 ore al giorno, in totale abbiamo pedalato per circa 20 giorni, bucando solamente 1 volta. A testa litri d’acqua bevuti…troppo pochi, eravamo sui tre litri al giorno circa, ma ne avremmo voluta molta di più, quando riuscivamo infatti facevamo grandi scorte!

Un tratto di strada nella steppa mongola

 

Oggi che Paese è la Mongolia: quale impressione vi hanno dato le città più popolose?

Il primo impatto con la Mongolia è stato travolgente. In poche ore ci siamo ritrovati catapultati in un mondo completamente diverso. L’effetto che fa confrontarsi con un paese asiatico, per cultura, tradizioni, architettura e modi di vivere così diversi lascia sempre un po’ spiazzati all’inizio. Fa capire quanto poco conosciamo del mondo e quanto c’è da scoprire.
Partiamo da Ulaanbaatar che ci ha accolti con un mix di fascino e disorientamento. Un posto fuori dal tempo, parte di un’altra dimensione a cui non siamo abituati. Le strade, segnate dal passaggio dei carri sovietici nel passato, si snodano tra imponenti edifici grigi – tipici di quel periodo – e scritte in cirillico su pareti e insegne. Paure e timori pian piano si acquietano e lasciano spazio all’equilibrio, grazie ai sorrisi delle persone e alla loro calda accoglienza.

Shrivatsa, il nodo infinito, simbolo tibetano sul cancello di un villaggio nelle steppe mongole
Uscire da Ulaanbaatar è come iniziare a respirare per davvero

Le steppe si estendono all’infinito, un tappeto erboso punteggiato da mandrie di cavalli selvaggi che galoppano liberi sotto un cielo immenso. La sensazione di libertà è palpabile, iniziamo a vivere momenti semplici attraversando questi paesaggi limpidi.

Giuseppe Papa con un un pastore mongolo, entrambi con l’abito tipico con cintura in vita e bottoni a destra

Sì, perché come in ogni altro nostro viaggio sembra che la costante dell’inizio sia re-imparare ad apprezzare e stupirsi delle cose autentiche e genuine, come i bambini che giocano nel fango.
La prima giornata inizia con un risveglio in un campo agricolo, nel mezzo di una radura. La sera prima siamo stati ospitati da una famiglia di contadini, e fin da subito si è creata quella sintonia tra viaggiatori e popolazione che mette in luce una grande virtù delle terre asiatiche: l’ospitalità.
Ancor di più qui, in Mongolia, dove i nomadi da sempre seguono il ritmo delle stagioni, la casa è più di un semplice rifugio che spesso si muove: è un luogo di condivisione, un punto di contatto con la natura e con il divino, è tutto ciò che ti circonda.
Il grande Cielo sopra di noi, accoglie tutti sotto un’unica realtà, il grande Tengri, “il dio del cielo azzurro” è così che lo chiamano.

Quali sono le emozioni, i sentimenti che si provano nel dormire in una yurta

Dormire in una Yurta ti fa tornare alle origini della vita dell’uomo. E’ una struttura millenaria che ha dato riparo alle popolazioni nomadi della Mongolia, e essere consapevole di questa cosa ti proietta in una dimensione ancestrale, è un rifugio che trasmette una sensazione di calore e protezione dal freddo e dal vento esterno provenienti dalla Russia a Nord, infatti la porta è orientata sempre a Sud per diminuirne l’effetto. L’ambiente è essenziale, la casa nella sua forma più primordiale e pura, e per noi che in quel contesto diventiamo nomadi è il miglior riparo che si possa trovare in viaggio nelle steppe Mongole.

Yurta, tipica tenda mongola capace di dare una calda accoglienza e resistere al freddo e al vento della steppa

Raccontateci qualche aneddoto successo durante la convivialità in una delle yurta che vi hanno ospitato

Spesso ci trovavamo in contesti familiari molto particolari: talvolta le famiglie condividono una yurta in molte persone, ed è possibile trovare molti letti all’interno. Altre volte, invece, i genitori sono in una yurta mentre i figli in una accanto. Può capitare che alcune yurta siano destinate alla cucina o alla devozione spirituale, in quest’ultimo caso ci sono altarini dedicati agli esseri che venerano. Ci ha colpito molto quando ad essere venerata era la figura di una cavallo, ma vivendo le steppe per oltre mille chilometri, abbiamo subito capito il perché.

Soffitto decorato della Yurta
Soffitto decorato della Yurta con la tipica corona

Qual è il cibo più strano, particolare o tipico che avete assaggiato?

A livello culinario la Mongolia torna come in molti altri ambiti all’essenziale. Le loro terre sconfinate e spesso aride non permettono di coltivare innumerevoli tipologie i ortaggi o verdure, principalmente abbiamo mangiato zuppe di verdure come carote insieme a patate e poco altro, lenticchie, e per la maggior parte zuppe di carne spesso con molto grasso, intense.
La cosa più particolare provata è stata un estratto di burro di Yak, che attraverso una particolare lavorazione nomade diventava quasi una sorta di caramello/miele, una consistenza molto densa e un gusto molto forte.

Pedalare nel silenzio, dove i comfort tra una città e l’altra sono separati da steppe infinite, quali emozioni e pensieri vi hanno accompagnato durante questi tratti?

Le steppe si estendono all’infinito, un tappeto erboso punteggiato da mandrie di cavalli selvaggi che galoppano liberi sotto un cielo immenso. La sensazione di libertà è palpabile, iniziamo a vivere momenti semplici attraversando questi paesaggi limpidi.
Sì, perché come in ogni altro nostro viaggio sembra che la costante dell’inizio sia re-imparare ad apprezzare e stupirsi delle cose autentiche e genuine, come i bambini che giocano nel fango.
Le pedalate procedono faticose, grandi venti ci soffiano contro, rallentandoci. Siamo soli, circondati da un’infinità di terra e di cielo, ma non ci sentiamo mai veramente soli. La presenza dei cavalli selvaggi che galoppavano liberi a fianco a noi, nella steppa, ci fa sentire parte di qualcosa di più grande, di un ciclo senza fine. E’ come se la natura stessa ci spingesse ad andare avanti.

Cavalli selvaggi nella steppa
Cavalli selvaggi nella steppa

Qui infatti il silenzio è onnipresente, quasi da diventare un rumore, sempre più nitido e potente.
Il silenzio ha il rumore del vento, dell’acqua che scorre, del respiro che aumenta con la fatica, delle nuvole che si muovono, delle fronde degli alberi che si agitano, dei fili d’erba che si scontrano, degli animali che emettono suoni nella notte, della vita che in tutta la sua purezza si manifesta nella sua forma più semplice.

E’ come se le nostre orecchie, finalmente liberate dai suoni superflui, potessero captare le più sottili vibrazioni dell’universo.

Tramonto sul lago Khuvsgul

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