La montagna è sempre stata amica del freddo, la flora e la fauna si è adattata a questa condizione e anche la stessa roccia fa i conti con cicli di gelo e disgelo, che contribuiscono, insieme agli agenti atmosferici, al rimodellamento della montagna stessa. Oggi, parleremo di una condizione particolare in cui si ritrova il suolo, quando le basse temperature perdurano sufficientemente a lungo nel tempo: il permafrost.

Cosa è il permafrost
E’ una condizione tale per cui il terreno (suolo, detriti, roccia, etc.) è perennemente gelato. Per essere precisi, un substrato, per essere considerato permafrost, non deve superare la temperatura di 0°C per almeno due anni consecutivi. Il permafrost può trovarsi anche a livello del mare nelle latitudini più a Nord. Questo si trova prevalentemente in Groenlandia, Alaska, Canada e Russia. Attualmente, l’emisfero settentrionale, è costituito per il 25% da permafrost, di questo il 5% interessa il territorio dell’alta montagna. Alle nostre latitudini (in Italia), il permafrost lo troviamo a partire dai 2500 metri s.l.m., in relazione all’esposizione dei versanti.
Al di sopra del permafrost c’è uno strato attivo che è sensibile agli agenti atmosferici, può arrivare a scongelarsi durante il periodo estivo e ricongelarsi d’inverno. In alta montagna, dove la componente suolo è ridotta e troviamo principalmente roccia e detriti, il ghiaccio del permafrost spesso è l’unico elemento che fa da collante, dando stabilità a porzioni di pendio altrimenti instabili.

Potete capire come il permafrost sia una componente preziosa per il nostro paesaggio, e anche per la nostra sicurezza. Il disgelo del permafrost, in alta montagna, può causare frane e colate detritiche, oltre a dare seri problemi a tutte quelle strutture le cui fondazioni sono state strutturate sul permafrost, come impianti di risalita e funivie.

Condizioni favorevoli per il permafrost.
Per rafforzare e consolidare il permafrost sono necessarie basse temperature per più tempo possibile durante l’anno. Questo significa, tradotto in termini meteorologici, che le prime nevicate dovrebbero essere a stagione avanzata e le primavere dovrebbero essere fredde per mantenere il manto nevoso il più a lungo possibile, così questo fungerà da “coperta” isolante e mitigherà l’effetto del caldo. Le prime nevicate a stagione avanzata lasciano nudo il terreno, in assenza di neve il suolo non sarà protetto dal suo strato isolante naturale permettendo così al terreno di raffreddarsi in profondità andando a consolidare il permafrost. Come ci fa notare Marcia Phillps Capogruppo dell’SLF, oggi le statistiche ci dicono che sì, le prime nevicate si verificano sempre più tardi, ma anche che la neve in primavera se ne va via prima, così i pendii si riscaldano di più, destabilizzandosi.

Oltre al pericolo citato poco fa nei confronti delle infrastrutture, anche gli alpinisti possono essere coinvolti direttamente in incidenti a causa dello scioglimento del permafrost.
In modo analogo, anche la fusione della neve stagionale può essere causa d’incidenti. Questa può aver intrappolato rocce e detriti durante l’inverno, non appena la neve si fonde, il materiale prosegue la corsa verso valle incontrando talvolta alpinisti lungo la traiettoria. Ad inizio stagione primavera-estate, scegliere vie e itinerari che non incontrano canaloni o pareti particolarmente a rischio per crolli, sarebbe una buona norma.
Ritornando al permafrost, possiamo dire che le giornate di caldo anomalo, possono innescare anche a quote elevate dei nostri 4000 lo scioglimento del ghiaccio e conseguenti crolli di roccia che fino al giorno prima erano servite da appiglio per la scalata. Quindi quando le temperature salgono davvero tanto, in quota può essere un problema per chi pratica alpinismo.
Prendere consapevolezza anche su questo aspetto ci permette di aggiungere un tassello verso una miglior gestione del rischio per una migliore programmazione dell’escursione, con una visione a 360°.