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Sei anni in giro per il mondo in bici: le avventure dei Becycling

Un’esperienza di nomadismo in sella alla bicicletta interrotta a causa della pandemia e nuovi progetti futuri: due chiacchiere con Simona e Daniele

Scritto il
da Martina Tremolada

Appassionati di outdoor e cicloviaggiatori incalliti, i “Becycling” Simona e Daniele hanno pedalato 60.000 km attraversando 35 Paesi del Mondo per sei anni senza sosta.
Sono partiti nel 2014 per il progetto dai 7 colli ai 7 passi. Da hanno percorso tutta l’Asia, poi dall’Australia al Canada per scendere verso il Sud America e una volta arrivati all’estremo sud, avrebbero dovuto pedalare l’Africa. Ma il Covid li ha fermati: del Perù sono tornati in Italia con un volo di rimpatrio in piena pandemia nel 2020.
Con la romanità travolgente e la consapevolezza tipica degli avventurieri, i Becyling ci hanno raccontato di più sulla loro esperienza. Buona lettura!


Intervista

Quando avete cominciato a viaggiare e perché?

Daniele: Fino al 2006, avevo 21 anni, non ero stato un grande viaggiatore. In quell’anno ho fatto il mio primo viaggio: un interrail in giro per l’Europa con gli amici del liceo. Dopo ho viaggiato a piedi sul cammino di Santiago e sulle alte vie delle alpi. Ho viaggiato anche in moto e in scooter, in tutti i modi finché non ho scoperto la bici.

Simona: Non ho mai fatto viaggi di qualche mese perché non c’è mai stata l’occasione, finito il liceo ho cominciato a lavorare. Ho fatto tante micro-avventure del week end in montagna, legate al mondo dell’arrampicata e con la tenda in spalla. Si partiva per andare dietro il “montarozzo” dietro casa e sembrava di stare chissà dove. Da lì poi è venuta l’idea che magari un giorno avrei lasciato tutto per vivere un’esperienza in tenda. Non pensavo necessariamente alla bici, ma ciò che mi premeva era che si dormisse ogni notte in tenda da qualche parte.

Poi è arrivato il grande viaggio: nel 2014 siete partiti insieme in bicicletta per il giro del mondo.

S: Chiamarlo viaggio è forse riduttivo perché ogni viaggio prevede un inizio e una fine. In quel caso invece era più un inizio senza fine. Un’esperienza di nomadismo.

D: Le persone ci chiedevano: “quanto durerà questo viaggio?” io rispondevo che sarebbe durato quattro anni, ma era una cosa inventata, in realtà non era prevista una fine. E non è ancora finito: è un’esperienza di vita, non è un viaggio.

Tutti sognano di mollare tutto e partire, voi siete riusciti a concretizzare questo sogno. Il vostro progetto si chiama “Dai 7 colli ai 7 passi”, come è nata l’idea?

D: Noi eravamo anche cicloattivisti a Roma: promuovevamo la mobilità sostenibile per diminuire l’uso delle auto. Siamo appassionati di montagna: prima della bici siamo stati montanari, arrampicatori e alpinisti. Così avevamo deciso che durante il viaggio avremmo voluto visitare le più grandi catene montuose del mondo. Mangiando la pizza romana dal “Cassamortaro”, l’amico che stava con noi ha avuto l’idea: dai 7 colli di Roma ai 7 passi di montagna più alti del mondo. In questo modo potevamo dimostrare ai romani che se noi potevamo fare il giro del mondo scalando i 7 passi più alti del mondo, loro potevano tranquillamente fare i sette colli di Roma evitando di prendere la macchina per fare due chilometri da casa al lavoro.

Scommetto, quindi, che la difficoltà più grande non è stata una salita in particolare. Quale è stato il momento più difficile di questi sei anni?

S: Il momento più difficile del viaggio è stato interromperlo in Perù con la pandemia. Sono state settimane di dramma totale. Alla fine siamo stati costretti a tornare ed è per questo che identifico quello come momento più difficile. Non tornavamo in Italia da sei anni perché non volevamo interrompere il flusso del viaggio.

D: Ci sono stati molti momenti difficili, qualcuno molto personale e soggettivo che magari per altri potrebbe avere meno significato.
Io ho sofferto moltissimo i visti asiatici: quasi mi arrestavano all’ambasciata cinese in Kazakistan perché non mi avevano dato il visto che volevo io, oppure per entrare in Russia ci avevano negato il visto e abbiamo dovuto cambiare itinerario passando dal Mar Caspio. Ho preso molto sul personale questi rifiuti e li ho vissuti male, è stata una vera difficoltà.

Oltre ai problemi dovuti ai visti, vi è capitato diverse volte di dover cambiare itinerario.

D: L’improvvisazione è fondamentale

S: Devi essere pronto a tutto e non avere rimpianti sulla strada che non prendi. La nostra scusa era: “se non ci passo, sarà il motivo per ritornarci”.

Avete improvvisato talmente tanto al punto di arrivare a dover lanciare la monetina per decidere se percorrere la Stuart Higway o la Stuart Cassier, in Canada.

D: QQQquella moneta ha una storia particolare. Quando siamo partiti da Roma, nel 2014 c’era il sindaco Marino che tagliava il nastro giallo rosso alla Piazza del Campidoglio e ci ha regalato una moneta commemorativa del bi millenario dell’imperatore Augusto che cadeva proprio in quell’anno. Per anni ho pedalato con questo “monetone” così grande (S: che pesava mezzo chilo!) nelle borse. Quella volta in Canada quando non sapevamo che strada scegliere abbiamo deciso di usarla per fare testa o croce.

È stata l’unica volta in cui avete scelto dove andare lanciando la moneta?

S: Si, il fatto di aver scelto di fare sempre le catene montuose in qualche modo agevolava la scelta delle strade perché ci obbligava ad andare in quella direzione

D: Solitamente ero molto analitico: mi mettevo lì a guardare i pro e i contro e c’era sempre una strada migliore. Quella volta era drammatico e non riuscivamo ad decidere allora abbiamo chiesto ad Augusto.

Stare in giro così tanto tempo vuol dire anche attraversare climi e altitudini diversi. Avete dovuto cambiare attrezzatura durante il viaggio?

S: si, abbiamo cambiato materiali dividendo il percorso in macro aree.
Quando siamo partiti dall’Italia, siamo andati verso Est, rimanendo sullo stesso parallelo non abbiamo incontrato grandi differenze di clima, è stato più semplice rispetto ad attraversare le Americhe da Nord a Sud.

D: Potevamo andare in montagna a 4-5mila metri però lo sapevamo ed eravamo preparati. Da Roma a Singapore siamo rimasti sullo stesso parallelo e l’escursione termica è stata poca. La minima era -14/15 in Turchia. Con l’attrezzatura che avevamo eravamo a posto.
Poi con l’avventura Canadese siamo andati a -30/40 gradi e lì avevamo temporaneamente sostituito l’attrezzatura con cui viaggiavamo con i materiali che ci sarebbero serviti per le temperature che aspettavano.

Quindi avete spedito il materiale?

S: In Canada è stata l’unica occasione in cui abbiamo dovuto pensare alla logistica. Dopo l’esperienza nel circolo polare artico ci siamo organizzati per non dover spedire nulla perché era troppo complicato, meglio portarsi tutto sulla bici. Siamo riusciti a trovare delle soluzioni alternative al portarsi il cambio per le varie stagioni. Per esempio al posto del sacco a pelo, usavamo un quilt che aveva una temperatura di -15 gradi in modo da permettere dormire sia al caldo, aprendolo, sia al freddo, chiudendolo.
Il piumino è un materiale che si compatta molto bene e si può portare facilmente per essere usato con basse temperature.

D: Un viaggio del genere ha bisogno di una logistica e un’organizzazione da matti. Alcune soluzioni erano allucinanti: cercavamo contatti a cui spedire o per farci spedire il necessario. Con il tempo riesci ad affinare l’attrezzatura in modo che sia leggera perché tu possa portarla in giro sempre, ma che riesca anche a coprire un range di temperature molto ampio.

Dal punto di vista della logistica i pernottamenti sono stati altrettanto difficili?

D: Improvvisazione totale sui pernottamenti.

Neanche la mattina sapevate dove avreste dormito la sera stessa?

D: Abbiamo sviluppato una capacità di studio della mappa che solo guardandola dicevamo: “Questo sembra un buon punto per dormire” e poi magari arrivavamo li ed era veramente così. Comunque la mattina non avevamo idea di dove ci saremmo fermati a dormire, in base al territorio sapevamo quanta strada avremmo fatto e così potevamo ridurre l’area dove saremmo arrivati per sera.

S: Cambiava molto da paese a paese. In alcuni Paesi, come il Canada e Stati Uniti, non ci sono problemi perché gli spazi sono molto ampi e un posto per la tenda si trova facilmente (in questi paesi i problemi riguardavano maggiormente i rifornimenti di acqua e cibo).
Altri Paesi, come dal Centro America in giù, che sono molto popolati, bisognava studiare meglio la situazione perché non sempre il punto scelto sulla mappa risultava adatto.

D: Oppure ci affidavamo totalmente alla gente che incontravamo. Quando cominciava a farsi ora del tramonto chiedevamo a tutti quelli che incontri “Senti ma un posticino per dormire da queste parti?” e alla fine qualcuno ci ospitava.

Di tutte le persone che avete incontrato, qual è la popolazione che ricordate con più piacere e quella meno?

D: Collegandoci con il discorso dei pernottamenti uno dei ricordi più positivi e incredibili è stato in Turchia. Lì non c’era verso di dormire in tenda. Ci volevano ospitare a tutti i costi. Era dicembre e sulle montagne della Turchia orientale faceva tanto freddo (-14 gradi), quando la gente ci vedeva ci prendeva di forza e ci portava dentro casa davanti alla stufa. All’inizio era un piacere poi dopo 10 giorni di fila che ti ritrovi ospite a casa di qualcuno a parlare in turco, volevamo anche prenderci una pausa… “Andiamoci a nascondere in tenda dietro l’angolo che non ce la facciamo più”.

S: Tutta l’Asia in generale era proprio una rilassatezza totale. Piantavamo la tenda dove capitava e nessuno si sconvolgeva, nessuno diceva nulla. Anzi, venivano per offrirci da mangiare, sono ospitali.
Forse i posti più difficili sono stati Centro e Sud America. Ci sono grandi problematiche sociali quindi occorreva fare attenzione a dove stavamo perché magari c’erano faide tra popolazioni a cui non piaceva che lo straniero dormisse in quel terreno. Lì era più complicato perché bisognava interpretare il posto e le persone.

Avete un passato tra alpinismo e arrampicata, le vostre esperienze in montagna sono state utili durante il viaggio?

S: Sì, per lo spirito di adattamento e la capacità di reagire agli imprevisti. Quando si fa alpinismo si studia la via, ma quando si è sul posto non è detto che le cose vadano come si erano programmate. Inoltre le esperienze alpinistiche mi hanno insegnato a stare in cordata. Quando ci si lega in cordata, ci si affida all’altro reciprocamente quindi bisogna avere la capacità di prendere le decisioni insieme.

D: Quando c’è il compagno che fa sicura, non fidarsi è un bel problema. L’alpinismo mi ha insegnato anche a gestire le mie risorse sia dal punto di vista fisico sia in relazione al cibo. Fisicamente, sia in bici che arrampicando o facendo trekking, occorre valutare le proprie capacità per capire se si riesce ad arrivare dove ci si è prefissati. La capacità di razionare il cibo è necessaria in montagna così come quando si pedalano 500 km nel deserto: se la prima sera si finiscono tutti i biscotti che ci si è portati, dopo pochi giorni non rimane più nulla.

Riprendere il viaggio che avete interrotto è un vostro pensiero? È nei piani?

S: In questo momento io personalmente non ci penso tanto. Siamo molto focalizzati su quello che vorremmo realizzare al momento, però siamo curiosi di vedere ciò che abbiamo lasciato da parte. Forse mi piacerebbe farlo al contrario: anziché riprendere da dove avevamo lasciato, arrivare dove abbiamo interrotto.

D: Adesso ci stiamo concentrando in altri progetti locali e lavorativi qui in Italia, comunque con l’obiettivo di usare le risorse che speriamo di ottenere per ripartire. Il pallino rimane sempre.

Siete appena diventati istruttori di cicloturismo e trekking, cosa vorreste trasmettere alla gente portandola in giro?

D: Ci piacerebbe trasmettere ciò che abbiamo vissuto. Il cicloturismo ora è in grande fermento, vorremmo anche aiutare chi vi si avvicina per la prima volta, facendo loro capire come farlo al meglio evitando loro le difficoltà iniziali che, se sono troppe, magari costringono alcuni a lasciar perdere.

S: Vorremmo anche far capire che è possibile vivere un’esperienza, un’avventura non necessariamente portandola all’estremo, non bisogna necessariamente attraversare il deserto del Sahara a 60 gradi. Basta semplicemente montare in sella e andare a vedere un posto nuovo dietro casa. Ecco forse trasmettere quella capacità di vedere il mondo sempre con un occhio diverso e una curiosità continua. Ci piacerebbe molto sviluppare progetti con le scuole, come abbiamo fatto lo scorso anno, per insegnare ai ragazzi che non c’è un modo unico di vivere e stare al mondo, ma ce ne sono moltissimi differenti.

Si possono trovare le statistiche del progetto “Dai 7 colli ai 7 passi”, le proposte per i tour e molto altro sul sito becycling.net e su Instagram alla pagina becycling.

Tutte le foto sono di https://www.becycling.net/ 


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