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Una chiacchierata con Paolo Lietti, esperto cicloviaggiatore

Paolo, tester per Outdoortest, ci racconta come affronta le sue avventure a pedali

Scritto il
da Martina Tremolada

Paolo Lietti, guida alpina di 62 anni è un cicloviaggiatore incallito. Fin da ragazzino ha nutrito una forte passione per la montagna e l’interesse a scoprire nuove località, nuovi ambienti naturali.

Abbiamo approfondito i suoi viaggi durante una piacevole chiacchierata. Ci ha raccontato aneddoti e trucchi del mestiere, affinati grazie alla meticolosità dell’organizzazione e alla lunga esperienza.

C’è solo una cosa che proprio non dobbiamo chiedergli, ma lo scopriremo nelle prossime righe.

Intervista

Come è nata la passione per la bicicletta?

“Arrivo dalla Mountain Bike, negli anni ’80 ho partecipato alle prime gare, quando ancora la MTB si chiamava rampichino, abbastanza sviluppato nella mia zona. Inoltre arrampicavo e correvo, quindi per la bici ero allenato. Non sono mai salito su una bicicletta da strada, volevo pedalare per esplorare la montagna. I primi itinerari che ho percorso si sviluppavano nelle zone vicino a casa, per esempio in Valsassina e Val Gerola. E così è definitivamente nata la passione per la bicicletta, che mi ha portato da giovanissimo a partire in solitaria all’avventura per regioni italiane e successivamente ad affrontare viaggi sempre più lontani e diversi dal punto di vista geografico e culturale.

La passione per la bicicletta non è nata dal ciclismo puro, ma dalla voglia di esplorare la montagna”.

Pedalando tra i sentieri di montagna in sella alla mtb
Qual è stato il tuo primo viaggio in bicicletta?

“Il primo giro che ho fatto è stato in Sardegna, nell’entroterra. All’epoca la rivista “Itinerari” aveva pubblicato un percorso off road per mezzi a motore (fuoristrada) da Geremeas, vicino a Villa Simius, fino a Olbia. Allora l’ho seguito e ho attraversato posti bellissimi come la Barbagia. Mi ricordo che ho perso un sacco di volte la strada perché non c’erano i dispositivi GPS. I primi viaggi in Italia e all’estero li ho fatti da solo, anche affrontando la paura di andare in luoghi remoti. In Giordania, per esempio, sono andato in un periodo in cui c’erano tensioni tra Israeliani e Palestinesi: prima di partire avevo un po’ di timore, ma quando sono arrivato mi sono reso conto che era meno amplificato di ciò che arrivava in Italia.

Ogni anno facevo un viaggio, ora sono in pensione e con i miei compagni di avventure partiamo un paio di volte all’anno per spedizioni importanti, e poi un paio in Europa o in Italia.

Ciò che ti sto raccontando può sembrare normale adesso. Ora sono viaggi facili perché abbiamo tutto, riusciamo ad andare in posti dove non andremmo se non ci fosse un GPS”.

Ora si trova qualsiasi informazione ovunque. Immagino che prima non fosse così facile.

“No assolutamente, non era facile. Ricordo che i primi tempi in cui si poteva andare sul web si provava a cercare, ma le notizie erano poche. Ora si trova davvero tutto”.

Andavi all’avventura o ti attenevi a ciò che riuscivi a trovare?

“Era sempre un misto. Per esempio, in Sardegna cercavo di seguire l’itinerario che avevo trovato, ma era molto difficile tenere la rotta. Nella zona del Gennargentu non era facile trovare la strada. Ultimamente ho seguito un percorso bikepacking il cui tracciato va da Olbia a Cagliari: era avventuroso per i luoghi attraversati, ma con la traccia GPX era facile seguire il percorso: oggi rispetto ad allora la strada è spianata”.

La bici tra le dune e la scarsa vegetazione del Marocco
Le mete dei tuoi primi viaggi fuori dall’Europa sono state Giordania e Tunisia, non di certo tra le mete più semplici…

“Sono sempre stato attratto dai deserti e dalla cultura islamica, mi hanno sempre affascinato e volevo andarle a vedere coi miei occhi. Sono stato in Tunisia da solo e in Marocco con un amico. L’idea di abbinare il viaggio alla scoperta culturale mi appaga moltissimo. Sono sempre stato attratto dal Sud, meno dal Nord Europa perché non ho mai trovato la soddisfazione che trovo nei paesi del Sud.

Ora li preferisco anche per questioni climatiche: mi piace pedalare al caldo. Sono stato in Islanda dopo la pandemia, ma climaticamente è un disastro”.

In Islanda ci eri già stato anche nel 2006. Hai notato differenze?

“A distanza di quindici anni non ho notato differenze perché è un Paese ancora poco antropizzato. Quello che è cambiato moltissimo è il clima: anche a quelle latitudini si sente il cambiamento climatico. Nel 2006 avevo pedalato lungo la KjolurPiste, che insieme alla Sprengisandur (che segue un altro percorso), è l’itinerario che taglia in mezzo all’isola. A quel tempo pioveva, ma si pedalava tranquillamente. La pioggia era fine, quella che loro chiamano drizzly, si scrollava dal Goretex ed eri asciutto.

Ci sono tornato poi appena dopo la pandemia perché è stato il primo Paese che ha aperto al turismo post covid. Ma era un disastro: bombe d’acqua, venti fortissimi e temporali violenti. Avremmo dovuto percorrere la Sprengisandur (che è un po’ più impegnativa), ma quest’idea è fallita perché ci siamo resi conto che c’era il rischio di ipotermia, ed era estate.

Adesso è troppo rischioso, una volta le perturbazioni così forti non c’erano”.

Nel cuore dell’Islanda, la Terra del Ghiaccio e del Fuoco
Hai partecipato anche a eventi o trail, oppure hai sempre viaggiato autonomamente?

“Ho sempre viaggiato autonomamente. Dopo la pandemia, quando non si poteva uscire dall’Europa, ho scoperto il bikepacking, che mi permette di viaggiare su percorsi più avventurosi e meno classici. Mi ha affascinato parecchio e con gli altri miei compagni di viaggio abbiamo fatto diversi giri in Italia e all’estero. Il percorso attraverso le Montañasvacías mi è piaciuto moltissimo, poi siamo andati alle Canarie. Lanzarote, Fuerteventura e Tenerife sono stati viaggi fantastici. Non li avrei mai scelti perché sono posti turistici, ma erano tra i pochi posti in Europa in cui tra settembre e novembre il clima è favorevole e siamo partiti. Mi hanno sorpreso.

Credo che un viaggio inizi prima di partire: quando hai l’idea e cominci a informarti. Per me organizzare un viaggio è la parte più bella”.

Sugli sterrati della sorprendente Tenerife tra la terra lavica dei vulcani circostanti
Quindi alla fatidica domanda “bikepacking o cicloturismo” come rispondi?

“Dipende dal percorso. A marzo sono stato in Vietnam in bikepacking perché lì non serve molto: le temperature sono alte, non avevamo la tenda e il bagaglio era ridotto. A settembre vado in Armenia e penso di andare sempre in bikepacking. L’assetto che userò sarà composto da borsa sottosella, manubrio, full frame al telaio e borse alla forcella.

Uso l’assetto da cicloturismo classico quando mi trovo su percorsi asfaltati o quando ho più materiale da portare perché riesco ad avere un piumino, il sacco a pelo pesante e tutto ciò che mi serve. Mentre il bikepacking è perfetto per quando ho necessità di un bagaglio più ridotto, perché così riesco ad avere una bici più leggera e più manovrabile”.

In un campo di yurte, tipiche tende dei nomadi Kirghizi
Usi spesso la tenda nei tuoi viaggi?

“In generale cerco di usare la tenda solo quando mi serve. Secondo me è assurdo andare in Paesi dove c’è molto da vedere e conoscere e appartarsi nella propria tenda. Cerco di dormire presso alloggi in modo tale da avere contatti con la gente e contribuire all’economia locale. In Kirghizistan abbiamo conosciuto dei ragazzi che non avevano mai dormito in una Yurta. Secondo me è assurdo. Innanzitutto usufruendo delle strutture del luogo porti del lavoro, stai bene e hai contatti con i locali. Credo che questi aspetti siano fondamentali. Non viaggio solo per pedalare e arrivare alla fine del giro, cerco sempre di portarmi a casa qualcosa di prezioso.

Nei Paesi con culture diverse dalla nostra credo che la tenda non sia indispensabile. Per esempio in Norvegia e Svezia, invece, ho sempre usato la tenda, perché gli alberghi sono asettici e troppo simili ai nostri.

In Namibia abbiamo sempre usato la tenda perché spesso ci trovavamo a dover essere in completa autonomia per giorni, poi quando siamo entrati in Sud Africa ci siamo sempre fermati in alloggi”.

Lungo le piste della Namibia
C’è qualcosa che non può mai mancare nelle tue borse?

“Non ci sono oggetti particolari che porto sempre con me, ma sicuramente non può mai mancare l’attrezzatura da riparazione.

Non ho mai usato il tubeless, perché preferisco la camera d’aria, quindi se sono da solo ne porto un paio e una manciata di pezze con mastice. Se siamo in compagnia una sola camera d’aria (abbiamo tutti le ruote da 29”), e poi ognuno ha le pezze e la pompa. Un paio di smagliacatena tra tutti con un pezzo di catena. Poca roba. In Namibia mi è capitato di portare anche un copertone, da usare in caso di emergenza. In trent’anni di viaggio non ho mai avuto rotture importanti. Ma prima di partire mi affido sempre a un meccanico per far smontare la bici e sistemarla”.

Quale bici usi per viaggiare?

“Ho una Salsa Fargo del 2013 con telaio e forcella in acciaio. Mi sono sempre trovato bene, è un po’ pesante perché sono circa 13 kg, ma è resistente. Non credo che l’acciaio si possa saldare, ma sicuramente è più robusto dell’alluminio o del carbonio.

Ho avuto tre biciclette per viaggiare. I primi viaggi li ho fatti con le ruote da 26”, ora le ho da 29”, ma il telaio è sempre stato in acciaio e sempre con forcella rigida. Poi ho una MTB che uso per i giri in giornata sulle montagne. Ma se lo sterrato non è importante uso la Fargo. Mi piace pedalare con copertoni larghi e se c’è tanto sterrato monto anche copertoni da 2.3”. Per i viaggi uso le Schwalbe MarathonMTB da 2.25”che sono pesanti, ma resistono anche alle piccole spine”.

Un viaggio in Cambogia, un paese estremamente ospitale non tralasciando la fantastica Angkor
Un consiglio per chi vuole cominciare a viaggiare, magari anche fuori dall’Europa?

“Il Sud-Est Asiatico adesso è una zona molto favorevole. La situazione geopolitica è spesso tranquilla, i Paesi sono facili da girare e la gente è molto ospitale. La ricerca degli alloggi è abbastanza semplice, basta munirsi di una cartina per avere sempre idea di dove andare. Se si va in Paesi particolari è necessario pianificare gli alloggi. Anche se magari poi non si usano, bisogna sapere dove sono i punti di rifornimento se si è in zone desertiche”.

Quali consigli ti senti di dare per le difficoltà che si possono incontrare in viaggio, legate alla comunicazione con la gente del posto, alle riparazioni meccaniche o altro?

“Per comunicare, con l’inglese in linea di massima te la cavi. In Paesi che parlano altre lingue mi affido a Google Translate: scarico il pacchetto della lingua che mi interessa e comunico così. Per le riparazioni meccaniche di base occorre essere assolutamente autonomi, soprattutto nei Paesi extra-europei, altrimenti non le risolvi. Se hai un grosso guasto irrisolvibile per esempio al telaio, a mio modo di vedere l’unica soluzione (e l’ultima opzione possibile) è avere un piano due che ti permetta di tornare a casa sconsolato o meglio ancora optare per un altro tipo  di viaggio più classico usando altri mezzi di trasporto.

Un’altra difficoltà può essere legata alla spedizione della bicicletta. Fortunatamente a me non sono mai capitati gravi problemi, però in Tagikistan la bicicletta è arrivata dopo tre giorni. Quando fai viaggi lontani può anche non andare tutto liscio.

Anche per imballare la bicicletta per l’aereo ci possono essere difficoltà (seppur relative). Se fai un giro ad anello usi la sacca, altrimenti usi lo scatolone. All’andata hai sicuramente uno scatolone ben fatto, a tornare cerchi di trovare un po’ di cartoni per impacchettare tutto. Mi è capitato di dover costruire lo scatolone. Proprio in Kirghizistan avevamo fatto fare da un falegname una base in legno leggero e poi avevamo usato cartoni e metri di tappetino sottopavimento da parquet per proteggere la bici. Una volta impacchettato il risultato fu un pacco fantastico: indistruttibile e leggero!”

Tra le montagne della Pamir Highway, dal Tagikistan al Kyrghizistan
Documenti i tuoi viaggi con diari giornalieri, li condividi anche sui social o su un sito? Perché?

“Sì, ogni viaggio scrivo giornalmente sull’esperienza vissuta. Ho 30 o 40 quadernetti, ma sono ricordi che tengo per me. Ogni viaggio scrivo a matita sul quadernetto (cambio colore ogni viaggio, ma sono tutti dello stesso formato). Prima scrivevo i chilometri percorsi e il dislivello, erano quasi viaggi con una componente di performance. Ora non mi interessano più i numeri, e quando mi chiedono “quanti chilometri avete fatto?” mi irrita. Quando fai un viaggio fai sempre fatica. Le sensazioni le provi tu, non colui al quale racconti che hai fatto “solo” 70 km, che poi se è uno stradista, magari, replica che lui li fa in poche ore.

Ora scrivo il riassunto della giornata, cosa abbiamo fatto, le emozioni  le indicazioni sugli alloggi le persone incontrate che ti hanno invitato per un tea. A volte capita di far scrivere o far disegnare anche qualcosa a chi incontro.

Preferisco non condividere nulla perché a volte ho la sensazione che alcuni facciano delle esperienze esclusivamente per pubblicarle. Allora non mi viene voglia di apparire sui social. Le poche foto che pubblico sono spesso di paesaggi, non mi ritraggo quasi mai. Con i social ho trovato molta gente e molte informazioni, ne comprendo il potenziale. Io condivido solo le tracce in cui ho trovato delle soluzioni alternative che reputo interessanti (e questo lo faccio anche per lo scialpinismo)”.

Un aneddoto di viaggio che ti piace ricordare e raccontare? E quello che invece preferiresti non aver vissuto?

“L’esperienza più brutta è stata in Italia, a Catania: una notte sono arrivato con un aereo, tardissimo. Montando la bicicletta mi sono accorto di aver portato due pedaline destre, quindi una non sono riuscito a montarla. Ero reduce da un infortunio al ginocchio (al legamento crociato), quindi dovevo raggiungere un ostello, di notte, a Catania, con l’unica pedalina montata sul ginocchio infortunato. Ho seguito la traccia GPX, che mi ha portato in una zona pericolosa. Lì ho rischiato perché mi fischiavano tutti, mi stavano correndo dietro e io sono scappato. Fortunatamente dopo poco ho trovato una volante della polizia e mi sono fermato.

Individuare l’aneddoto più piacevole è difficilissimo, le esperienze sono tante. Ecco, mi viene in mente che avevo organizzato un viaggio in Georgia con un’altra persona che non avevo mai visto. Ci siamo dati appuntamento in un punto e ci siamo trovati lì. Poi ho affrontato diversi viaggi con questa persona perché mi aveva colpito fin da subito per essere riuscito a individuare il punto di ritrovo, poi ci siamo trovati benissimo.

Un altro bell’aneddoto riguarda il viaggio in Siria del 2011. Siamo stati al Monastero di Mar Musa dove c’era Padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita romano rapito e di cui si sono perse le tracce da ormai oltre 10 anni. Avevo dormito in questo monastero dove il Padre predicava il dialogo interreligioso, la convivenza tra religioni. Non frequento l’ambiente ecclesiastico, ma avevo assistito a una preghiera tra islamici, cattolici e ortodossi. Era stata lunga, ma molto bella e Padre Paolo Dall’Oglio non c’era perché “c’erano dei problemi”. Quell’anno ( era il 2012) già cominciavano a esserci disordini, ma noi abbiamo incontrato gente squisita. Ci invitavano nelle loro case e non volevano nulla, riuscivamo solo a lasciare qualcosa dicendo che serviva per gli studi, allora accettavano. Nei luoghi meno benestanti l’ospitalità è sacra. È un principio che penso sia insito in tutte le persone, ma noi l’abbiamo purtroppo perso. Questo è il filo che unisce un po’ tutti i miei viaggi”.


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